Dalla misura del risarcimento del danno dovuto al lavoratore, il cui licenziamento sia stato dichiarato nullo perché riconducibile esclusivamente a un motivo ritorsivo, deve essere detratto il periodo in cui il medesimo lavoratore avrebbe potuto essere impiegato in una occupazione alternativa per effetto della ricerca attiva di una ricollocazione professionale.

Se il lavoratore, in altri termini, non si è diligentemente attivato per ricercare un nuovo impiego a seguito del licenziamento ritorsivo, il risarcimento del danno non può ricomprendere tutte le mensilità fino al giorno della reintegrazione, ma deve essere limitato al periodo ragionevolmente necessario per trovare un altro posto di lavoro.

Il periodo di riferimento per il calcolo dell'indennità risarcitoria prevista dall’articolo 2, comma 2, del decreto sulle tutele crescenti (Dlgs 23/2015) che, stando al dato normativo, ricomprende tutto l’intervallo non lavorato tra la data del licenziamento e quella di effettiva reintegrazione, dedotto unicamente l’aliunde perceptum, deve essere delimitato al tempo ordinariamente necessario al lavoratore per il reperimento di nuova occupazione.

Ordinaria diligenza secondo il Codice civile

Questo approdo è stato raggiunto dalla Corte d’appello di Brescia con una sentenza del 2 febbraio 2023, (presidente Matano) che ha ritenuto di estendere al regime della “tutela reale piena”, proprio dei licenziamenti dichiarati nulli, il principio espresso dall’articolo 1227, comma 2, del Codice civile, in base al quale «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza».

Partendo dal rilievo che scopo della norma è colpire condotte non diligenti del soggetto danneggiato, il collegio bresciano perviene alla conclusione che tale principio si applichi anche al lavoratore che, a fronte di un licenziamento ritorsivo, non si sia attivato per trovare un altro lavoro nelle more del giudizio.

Se risulta accertato che nel periodo di disoccupazione, determinato dal licenziamento successivamente dichiarato nullo, il lavoratore non ha tentato di reperire un impiego alternativo, il risarcimento del danno non può coprire tutto l’intervallo non lavorato tra il giorno del recesso datoriale e la effettiva ricostituzione del vincolo contrattuale. Va valorizzata, in questo caso, la colpevole inerzia del lavoratore, che impone di ridurre l’indennità risarcitoria al periodo di tempo che, se il medesimo lavoratore si fosse diligentemente attivato, sarebbe stato sufficiente per trovare una nuova soluzione occupazionale.

Diciotto mesi per un nuovo impiego

Il caso sul quale si è pronunciata la Corte d’appello è relativo al licenziamento in periodo di prova di una addetta commerciale che si era spesa a favore delle istanze contrattuali dei colleghi. Riformando la decisione del giudice di primo grado, il collegio ha ritenuto il licenziamento ritorsivo e disposto, in applicazione del regime di tutela reale piena, la reintegrazione e il pagamento di un risarcimento pari a 18 mesi, escludendo il periodo ulteriore di inattività intervenuto prima della sentenza. La Corte ha rimarcato che «un lasso di tempo di 18 mesi risulti nel caso di specie sufficiente per reperire una nuova occupazione».

La decisione è degna della massima attenzione, perché estende il concetto dell’aliunde percipiendum al regime sanzionatorio del licenziamento nullo. In questo ambito, la disciplina di legge (non solo l’articolo 2 delle tutele crescenti, ma anche l’articolo 18 della legge 300/1970) ha previsto di dedurre dal risarcimento i soli compensi che il lavoratore abbia ricevuto per effetto di un’altra occupazione.

Giuseppe Bulgarini d'Elci - 22 febbraio 2023 – tratto da sole24ore.com

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