Salvo imprevisti, la legge di bilancio 2020 ora all’esame del Parlamento prorogherà di un anno “opzione donna”. Un canale di pensionamento che nel 2019 dovrebbe essere utilizzata da circa 18mila lavoratrici, più per necessità che per scelta, e che prevede la maturazione del requisito previdenziale al raggiungimento di 35 anni di contributi e 58 anni di età (59 in caso di lavoratrici autonome).

Introdotta nel 2004, per diversi anni ha suscitato scarso interesse, dato che i requisiti allora richiesti (35 anni di contributi e 57 o 58 di età) coincidevano o differivano poco rispetto alle modalità di pensionamento ordinario.

La svolta si è avuta dal 2012 quando, per effetto della riforma Fornero, i requisiti “standard” sono cresciuti sensibilmente, soprattutto per le donne. Ecco che la via d’uscita alternativa ha registrato un successo crescente: 7.157 pensioni liquidate nel 2012 e poi via via sempre più fino ad arrivare alle oltre 28mila del 2015, anno in cui l’opzione sarebbe dovuta uscire di scena. Quindi ci sono stati alcuni interventi di proroga, con 15.330 assegni liquidati nel 2016, poco meno di 10mila nel 2017 e 2.500 l’anno scorso.

Così quest’anno
Quest'anno il ritorno, per effetto del decreto legge 4/2019 che ha riproposto opzione donna seppur incrementando di un anno il requisito anagrafico minimo. Un’opportunità che alla fine dello scorso mese di settembre era già stata attivata da 13.500 lavoratrici, con la prospettiva di arrivare a 18-19mila domande accolte entro la fine dell’anno. Un numero analogo a quanto si prevede di raggiungere l’anno prossimo grazie alla proroga contenuta nella legge di bilancio.
Proprio i numeri relativi a quanto accaduto quest’anno evidenziano come questo tipo di pensionamento sia prevalentemente una necessità, più che una scelta. Secondo i dati contenuti nel Resoconto sociale Inps, delle pensioni liquidate nei primi quattro mesi dell’anno solo il 33,2% riguarda lavoratrici che nel 2017 hanno guadagnato più di 13mila euro. Un altro terzo ha dichiarato zero redditi, e quasi un ulteriore 20% non ha superato gli 8.700 euro lordi all’anno. Quindi disoccupate oppure con entrate molto contenute. Più che quale forma di flessibilità pensionistica, opzione donna viene utilizzata in buona parte per garantirsi un reddito.

La penalizzazione
Ciò a fronte del fatto che opzione donna garantisce un consistente anticipo rispetto alle forme di pensionamento standard, ma al contempo comporta una riduzione dell'assegno per due motivi.

Il primo è che viene calcolato con il metodo contributivo, anche se la maggior parte delle beneficiarie, sulla base della carriera contributiva, avrebbe diritto al metodo misto, utilizzato per la pensione di vecchiaia o quella anticipata.

Il secondo è legato all’età del pensionamento: due terzi delle domande presentate nel primo semestre 2019 sono arrivate da donne con 59-60 anni di età, che quindi anticiperanno mediamente di 5-6 anni il pensionamento “standard” (tra la maturazione del requisito e il primo assegno devono trascorrere 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 per le autonome).

L’esempio
Il sistema contributivo prevede che l’importo dell’assegno sia frutto del montante accumulato moltiplicato per un coefficiente di conversione, che diventa via via più vantaggioso con l’aumentare dell’età. Ipotizzando un montante contributivo di 250mila euro, per esempio, se si va in pensione a 67 anni si ottiene un assegno mensile lordo di 1.077 euro, mentre a 60 anni si incassano 871 euro.

Oltre a ciò per chi a 60 anni ha ancora la possibilità di lavorare, si deve aggiungere la penalizzazione determinata dalla scelta di non versare contributi nei sette anni seguenti, rinunciando quindi a incrementare il montante contributivo (i 250mila euro) e a una pensione ancora più alta.

Matteo Prioschi – 21 novembre 2019 – tratto da sole24ore.com

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