Non c’è riuscito il Covid a fermare l’Erasmus e non ci riuscirà la Brexit. Nonostante la pandemia globale sono quasi 22mila gli italiani (in gran parte studenti) che a ottobre 2020 risultavano partiti (o in partenza) per un programma di scambio: più o meno il 40% dei 49mila autorizzati. E anche ora che il Regno Unito è uscito dall’Ue l’esecutivo di Bruxelles dimostra di voler ancora scommettere sul programma di mobilità studentesca. Raddoppiando i fondi e ampliando i destinatari.
Il nuovo regolamento che disciplinerà Erasmus+ da qui al 2027 è atteso entro gennaio. Se la scadenza venisse rispettata entro febbraio potrebbero arrivare la guida e le prime call e a fine marzo i primi bandi per la mobilità. Ma alcuni punti fermi già ci sarebbero.
A cominciare dall’aumento della dote finanziaria del programma europeo dai 14,7 miliardi del 2014/20 ai 26 dei prossimi 7 anni.
L’obiettivo esplicito è arrivare a un ampliamento dei beneficiari di un’esperienza che dal 1987 a oggi ha coinvolto 10 milioni di ragazzi e ragazze (570mila in Italia). Come? Raggiungendo persone di ogni estrazione sociale, ammettendo ai fondi enti più piccoli di quelli tradizionali e aumentando le chances per le scuole (nei piani di formazione all’estero, oltre a prof e personale, potranno essere coinvolti anche gli alunni, ndr) accanto al bacino tradizionale dell’università. E si punterà su ambiti di studio che guardano al futuro come le energie rinnovabili, i cambiamenti climatici, l’ambiente, l’ingegneria, l’intelligenza artificiale o il design. Ferma restando la sua articolazione in tre azioni chiave: la prima per la mobilità delle persone; la seconda per le misure di cooperazione; la terza per le politiche di istruzione, gioventù e sport.
I propositi di riforma devono fare i conti con un doppio problema. Il primo è mondiale e riguarda il Covid-19.
Nell’annus horribilis 2020 la pandemia ha sconvolto un po’ ovunque i progetti di mobilità studentesca. Partita bene, con un aumento delle domande di scambio del 3% a fine febbraio, anche l’Italia si è trovata a fare i conti con uno scenario sconvolto dal virus: frontiere chiuse, viaggi annullati, stop alle lezioni in presenza in tutta Europa.
Durante il lockdown erano 13mila i nostri ragazzi oltre confine e circa metà ha scelto di rientrare. Nella fase 2 lo scenario sembrava essere migliorato, come confermano i numeri dell’Agenzia nazionale Erasmus+ Indire.
A ottobre - in base a una rilevazione a cui hanno risposto 63 università su 90 - su 49mila studenti (e docenti o staff) autorizzati a partire lo avevano già fatto o erano pronti a farlo in 21.916 (il 44,4%). Ma ora il quadro è di nuovo mutato. Tant’è che alcuni atenei (Genova e Salerno), appellandosi alla propria autonomia, hanno nuovamente bloccato le partenze. Mentre altri (Torino, Milano, Padova, Firenze, Sapienza, Roma Tre) stanno andando avanti. In un contesto generale di emergenza che, da un lato, ha consentito a chi doveva partire di poter posticipare fino a un massimo di 12 mesi e, dall’altro, a chi è partito di cimentarsi anche in Erasmus con la didattica mista. Con studenti che hanno iniziato in presenza e proseguito online o viceversa.
A turbare i sonni di Erasmus+ dal 1° gennaio è intervenuta anche la Brexit. Nonostante i propositi iniziali del premier inglese Boris Johnson di prolungare l’esperienza di scambio con l’Ue, alla fine il Regno Unito ha deciso di interromperla.
Un problema non di poco conto per noi, visti movimenti in entrata e in uscita (su cui si veda il grafico accanto) che ci legavano agli inglesi. Fermo restando che i progetti autorizzati nel 2020 potranno andare avanti anche nel 2021 e che lo stop riguarda solo la nuova programmazione, un ostacolo in più i ragazzi che ancora non hanno messo piede oltremanica lo troveranno lo stesso: per restare più di 3 mesi servirà il visto.
Ma una parola di speranza arriva da Flaminio Galli, direttore dell’Agenzia nazionale Erasmus+ Indire: «La Brexit è un fatto di portata storica che avrà sicuramente un impatto sulla mobilità in entrata e in uscita di studenti tra Ue e Regno Unito. Tuttavia - dichiara al Sole 24Ore del Lunedì - non tutto è definitivamente perduto. Il programma Erasmus, infatti, è uno strumento molto flessibile e adattabile. Già adesso vi sono significativi accordi bilaterali con realtà extraeuropee come il Marocco, la Tunisia o altri Paesi nel mondo, che rendono possibili le esperienze di mobilità. Ci auguriamo che questo possa coinvolgere in futuro anche lo stesso Regno Unito». A suo giudizio, il futuro di Erasmus si prospetta comunque «solido»: «Continuerà a finanziare iniziative per promuovere la conoscenza e la consapevolezza, il senso di cittadinanza e appartenenza all’Europa. Il programma prevede un forte investimento nelle persone, nelle loro competenze e nelle loro conoscenze green e digitali, necessarie a rispondere alle sfide globali, a mantenere l’equità sociale e a guidare la competitività».
Eugenio Bruno - 20 gennaio 2021 – tratto da sole24ore.com