Pur coprendo una grossa fetta del Pil e dell’export italiano, negli ultimi anni il settore zootecnico sta facendo i conti con una massiccia riduzione del numero di medici veterinari. Un problema sottovalutato che, al di là della professione, coinvolge più livelli. Dall’università alla filiera agroalimentare, fino ai consumatori e all’intero sistema Paese.
Sono sempre di più i neolaureati che orientano la propria carriera verso il trattamento degli animali da compagnia. Cani, gatti o specie esotiche hanno la meglio su bovini, ovini o suini, innescando un processo tutt’altro che circoscritto all’Italia e riconoscibile sul territorio europeo ed extraeuropeo. Dalla Grecia all’Oregon. «Penso che l’origine del fenomeno sia strutturale e derivi da una sostanziale incapacità di prevedere quel che succede sul campo», sottolinea Marco Colombo, buiatra e vicepresidente Anmvi con delega al settore degli animali da reddito. «La previsione del numero dei professionisti necessari viene fatta sulle esigenze del servizio sanitario nazionale e non su quelle del mondo della professione. Questo crea sfasamento tra quel che serve e quel che viene programmato».

Numero chiuso e scarsa varietà tra gli studenti

A pesare sulla carenza di veterinari, però, è anche lo scarso assortimento delle nuove leve. «Ai miei tempi, gli iscritti avevano provenienze sociali diverse da quelle di oggi – spiega Francesco Orifici, medico veterinario e presidente di Anmvi Lombardia – c’erano tanti figli di allevatori e contadini, orientati verso il mondo degli allevamenti, e c’era più varietà tra chi iniziava a studiare la materia da zero e chi aveva chiaro il percorso da fare». Uno scenario ormai remoto: i test d’ingresso privilegiano chi arriva dalla città e ha una buona cultura generale. A spuntarla sono i liceali, a scapito di ragazzi che, per studi o storia familiare, sarebbero quasi destinati alla strada della zootecnia. «La veterinaria soffre il numero chiuso, da rivedere in parallelo ai criteri selettivi», chiosa Gaetano Oliva, docente di clinica medica veterinaria all’università Federico II di Napoli. Non solo: secondo Oliva, a condizionare gli iscritti potrebbero essere state anche «le campagne informative che hanno additato gli allevamenti intensivi tra le cause dell’inquinamento».

Restyling non in agenda

Un restyling dei meccanismi, tuttavia, non è prevedibile. «La prova d’accesso non cambierà nel prossimo futuro» , precisa Domenico Bergero, coordinatore della Conferenza dei direttori di dipartimento di medicina veterinaria. «La scarsità di professionisti è percepita e non c’è dubbio occorra una riflessione. La Federazione degli ordini ha avviato una verifica per capire come instradare i colleghi ma è difficile pensare di poter aprire corsi ad hoc, diretti a chi vuole dedicarsi agli allevamenti. Il corso di veterinaria è sotto il sistema di accreditamento Eaeve, le cui norme non prevedono quest’opzione, e continuerà a essere generalista. Tuttavia, gli studenti conoscono il problema e la buiatria è redditizia, non escludo che il mercato possa riequilibrarsi da solo».

La via d’uscita

Quale la strategia per correggere il tiro? Sul fronte accademico, lavorare sulla specializzazione. E valorizzare percorsi a stampo zootecnico nelle facoltà agevolate, per geografia, dalla disponibilità di risorse sul territorio. Puntare sulla programmazione e, per Orifici, «istituire tavoli tecnici con addetti, Miur e università». Prevenire l’emergenza. Discorso impellente se guardiamo alle ripercussioni su controlli e cibi. «La mancanza di clinici non permette di soddisfare i prerequisiti per avere allevamenti, animali e prodotti sani – chiarisce Colombo –. Mettere controllo, verifica e aspetto sanitario a valle della filiera non funziona. I risultati di qualità si ottengono solo col lavoro che l’allevatore fa se supportato dal veterinario competente. Una figura essenziale e insostituibile in ogni step del percorso».

Camilla Curcio - 3 marzo 2023 – tratto da sole24ore.com

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