Sì alla confisca delle somme sul conto della donna che percepisce il reddito di cittadinanza se non comunica le variazioni di reddito, anche se quest’ultimo è lievitato soprattutto grazie ad un premio di nascita e ad elargizioni a sostegno dei lavoratori in difficoltà. Ciò che conta è, infatti, il carattere fungibile del denaro. La Corte di cassazione (sentenza 41183) conferma il reato indicato dall’articolo 7, comma 2 del Decreto legge 4/2019 con il quale è stato introdotto il reddito di cittadinanza. La norma prevede una pena da un anno a tre anni di reclusione, per i beneficiari della misura che non rendono note, le variazioni di reddito o patrimoniali, anche se di origine illecita, che siano tali da comportare la revoca o la riduzione del reddito di cittadinanza.

Gli aiuti pubblici erogati dall’Inps

Nello specifico l’origine delle 2.700 euro sequestrate, era certamente lecita ma questo non basta per escludere la confisca diretta di somme considerate profitto del reato. Un criterio applicato nel caso esaminato ad una cittadina polacca, classe 1987, che inutilmente aveva affermato la sua buona fede in merito alla mancata informazione che non riteneva dovuta, visto che il denaro finito sul conto arrivava nella misura più consistente - a parte piccoli redditi da lavoro - sempre dalle casse pubbliche in forma di benefici a sostegno delle famiglie o dei lavoratori in difficoltà. Circostanze che, contrariamente a quanto lamentato dalla ricorrente, il Tribunale non aveva ignorato. I giudici erano, infatti, consapevoli che le somme sequestrate erano estranee al reato, sia perché in parte entrate nella sua disponibilità prima di questo, sia perché corrisposte dall’Inps come aiuti pubblici, anche se nel conto c’erano anche piccoli introiti da lavoro. Tuttavia per il Tribunale tali circostanze sono ininfluenti. In più il ricorso viene bollato come inammissibile perchè di competenza della Cassazione è solo la configurabilità del reato.

La condanna alle spese

Mentre il Gip e il Pm sono i referenti per contestare la correttezza del vicolo in merito all’identificazione delle somme da confiscare, o la sproporzione tra il valore complessivo indicato nel decreto di sequestro e il valore effettivo di beni. Al Pm vanno rivolte le istanze per la parziale restituzione, che in caso di risposta negativa la trasmette al Gip, il cui provvedimento è impugnabile davanti al tribunale per il riesame delle misure coercitive. All’inammissibilità del ricorso segue la condanna alle spese oltre ad un versamento in favore della cassa delle ammende, il tutto per un totale di 3.000 euro: più della somma sequestrata.

Patrizia Maciocchi - 13 novembre 2021 – tratto da sole24ore.com

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