L’Iva, insieme all’Irpef, è uno dei due grandi pilastri del nostro arrugginito sistema fiscale. Contende all’imposta sul reddito delle persone fisiche il primato della popolarità (tutti la pagano o almeno così dovrebbe essere) ed è la seconda imposta più importante per volume di gettito: quasi 133,5 miliardi di euro di incassi nel 2018 - contro i 187,5 dell’Irpef – che rappresentano il 28,8% delle entrate fiscali complessive e il 7,6% del prodotto interno lordo. Secondo l’ultimo rapporto sull’economia sommersa, il prelievo sui consumi affianca l’Irpef anche per “propensione all’evasione”: 37,2 miliardi di euro, rispetto a un tax gap che per l’imposta personale arriva a 37,4 miliardi.

Le analogie tra Iva e Irpef, certo, finiscono qui. Se non fosse che esattamente come l’Irpef, anche l’Iva attraversa una fase di grande sofferenza ed evidenzia numerose criticità che, proprio come avviene per l’imposta sulle persone, attendono un vigoroso e coraggioso intervento di riordino. C’è di più. Quando si parla di urgenza della riforma della tassazione dei redditi personali, forse si sottovaluta che essa potrebbe essere addirittura vanificata dalla mancata attenzione ai problemi dell’Iva, a partire da quelli derivanti dalle clausole di salvaguardia.

Un sistema senza certezze per le alchimie della finanza pubblica
E, in effetti, la prima astrusità dell’Iva (che invero non deriva dall’imposta in sé ma dalle alchimie di una finanza pubblica sempre più creativa) è la sua condizione di precarietà non più sostenibile, determinata dalle clausole di salvaguardia: per garantire gli obiettivi di finanza pubblica, le leggi di Bilancio prevedono futuri aumenti di tassazione – incrementi delle aliquote Iva (e delle accise) – che possono essere disinnescati solo se risorse equivalenti sono reperite con tagli di spesa, altre entrate, deficit (o con un loro mix, come è finora accaduto).

Ma può un’imposta vivere perennemente sotto il ricatto di un possibile (e rilevante) aumento della tassazione? Ovviamente, no. Eppure, così ancora è. Il che ci spinge a fare un salto al 1° gennaio 2021. Anzi, molto prima, perché già entro il prossimo 10 aprile, con il nuovo Def che avvia il ciclo della programmazione economico finanziaria, il governo dovrà cominciare a ragionare su come affrontare il tema delle clausole di salvaguardia, ovvero come gestire il previsto aumento delle aliquote Iva per il 2021.

L’ANDAMENTO E IL GETTITO DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO

Iva ordinaria. Attualmente l'Italia adotta anche le aliquote del 4, 5 e 10% - Dal 2021 – se non saranno sterilizzate le clausole di salvaguardia - l'aliquota del 10% salirà al 12%

L’ultima legge di Bilancio ha sterilizzato l’aumento per il 2020 (circa 23 miliardi di euro). Tuttavia, le clausole di salvaguardia sono state “ri-attivate” per il prossimo biennio: 18,9 miliardi nel 2021 e altri 25,8 miliardi nel 2022 (pur alleggerite rispettivamente di 9,8 miliardi e di 3 miliardi). La legislazione attuale è già allineata: l’aliquota ordinaria 2021 sarà del 25% (rispetto al 22% attuale) e diventerà 26,5% nel 2022; e un’aliquota ridotta sarà del 12% (oggi siamo al 10).

IL GETTITO TOTALE

Entrate tributarie 2018. In mln (Fonte: elaborazione su dati del Bollettino entrate tributarie del Mef. Anno 2018)

Ora, è evidente che un aumento dell’Iva di queste proporzioni sarebbe quanto meno avventato. In primo luogo, un’operazione di questo tipo finirebbe chiaramente per avere pesanti ripercussioni economiche, con una contrazione dei consumi e contraccolpi sull’occupazione e sulla crescita (a maggior ragione in questa fase di prolungata debolezza della congiuntura). Per altri versi, l’aumento secco delle aliquote non pare una buona soluzione in termini di efficienza del sistema, perché, come è risaputo, l’evasione dell’Iva tende ad aumentare al crescere delle aliquote, mentre il nostro Paese ha bisogno di ridurre l’evasione.

IL PESO SPECIFICO

Irpef e Iva, in milioni e in % sul gettito e sul Pil (Fonte: elaborazione su dati del Bollettino entrate tributarie del Mef. Anno 2018)

Il tema, allora, diventa come trasformare in opportunità un problema che altrimenti è destinato a trascinarsi di anno in anno. Ovvero, capire se lavorando proprio sulle debolezze dell’Iva, non si possa arrivare a un suo riordino con tre obiettivi combinati tra loro:
- assorbire le clausole di salvaguardia;
- eliminare le storture che l'hanno snaturata;
- far convergere riforma Irpef e riordino Iva, anche nell'ottica di uso razionale delle (poche) risorse disponibili.
Su quest’ultimo aspetto, in effetti, non si parte da zero. Come si ricorderà, nell’autunno scorso, fu proprio il ministro Roberto Gualtieri ad avviare il confronto su un possibile intervento sulle aliquote Iva, nella prospettiva di utilizzare parte del maggior gettito ottenuto alla riduzione del cuneo fiscale (poi finanziata con altre risorse). Allora non se ne fece nulla. Ora, pur con prudenza, proprio a Telefisco il ministro Gualtieri ha ribadito che esistono molte buone ragioni per provare almeno a ragionare su un percorso di razionalizzazione-rimodulazione dell’Iva.

Groviglio di panieri e di aliquote diverse anche per beni assimilabili
Uno dei problemi più evidenti dell’Iva è legato alla struttura di aliquote e panieri dei beni-servizi, con un caos che crea ingiustizie e assurde complicazioni. L’assetto attuale delle aliquote – ne abbiamo tre più una: 4, 10 e 22% oltre alla new entry del 5%, a metà del 2017 – è il portato di una irrazionale stratificazione di interventi non sempre attenti all’equilibrio e all’efficienza dell’imposta.

La lettura delle tabelle dei beni soggetti alle diverse aliquote talvolta è un viaggio nel mondo dell’indecifrabile. I casi più eclatanti li ha riassunti Fernando Di Nicola, ex super ispettore Secit, in un’intervista sul Sole 24 Ore del 22 gennaio scorso. La cosa che più colpisce è l’applicazione di aliquote diverse per beni assimilabili: le piantine in vaso di basilico, rosmarino o salvia al 5%, quelle di maggiorana, menta e origano al 22 (se però l’origano è in “rametto” si torna al 5%). Il gas al 22% e l’elettricità al 10. Tra le stravaganze, quella di acqua minerale o caffè (e molti altri prodotti): 4% in mensa, 10% al bar e al ristorante, 22% se acquistati in negozio. Senza dire che, a esempio, i prodotti alimentari sono spalmati sulle quattro aliquote, con differenze che non sembrano avere alcuna logica: il latte al 4%, le uova al 10 per cento.

Come se non bastasse, l’Iva si caratterizza anche per la proliferazione di regimi speciali, esclusioni, esenzioni, eccezioni, facendone un’imposta particolarmente complessa e soggetta a rilevanti fenomeni di erosione (il Rapporto programmatico sugli interventi in materia di spese fiscali, allegato al Def, individua 68 agevolazioni direttamente collegate all’Iva. Qualche anno fa, il rapporto Vieri Ceriani sulle tax expenditures contava circa 120 misure agevolative, comprese le aliquote ridotte, con un costo per l’erario di circa 35-40 miliardi di euro).

Un colpo all’evasione eliminando le storture
delle aliquote
Come se ne esce? Qualcuno propone di avviare, in modo certosino, un riordino che consenta di incasellare ogni bene nel “giusto” livello di prelievo. Pur mantenendo l’attuale numero di aliquote, si potrebbero eliminare le storture (e le regalie) del passato, azzerando le differenze di aliquota laddove non siano giustificate. E utilizzando anche la leva fiscale per premiare o punire determinate scelte di consumo (ne abbiamo un recente esempio: i prodotti per l’igiene intima femminile sono al 5% se biodegradabili, altrimenti sono al 22).

Il punto è che la vulnerabilità dell’Iva non riguarda solo la distribuzione caotica di beni e servizi nella griglia delle aliquote, quanto piuttosto la numerosità stessa delle aliquote e la “distanza” che tra loro si manifesta. Molti studiosi, anche a livello internazionale, sostengono che la riduzione del numero di aliquote renda il sistema dell’Iva più efficiente. Ne è convinto, a esempio, Vincenzo Visco, il quale suggerisce che riducendo il numero delle aliquote, e adottandone solo una pari all’attuale livello medio, intorno al 15-16%, non solo si otterrebbe gettito identico a quello che abbiamo ora, ma si avrebbero persino entrate incrementali per 8-10 miliardi di euro, grazie al recupero di evasione. Ripensare il sistema delle aliquote consentirebbe quindi di ridurre l’elevatissima evasione Iva.

Come sappiamo, il tax gap dell’imposta viaggia tra molti rivoli (in verità, visti i numeri in ballo, sembrano più dei fiumi in piena): si stanno affinando, con risultati positivi (stando alle cifre fornite dal governo), sistemi di contrasto che, seppur non indolori per i complessi e costosi adempimenti e contraddittori rispetto a strumenti come reverse charge e split payment, potrebbero aiutare a ridurre l’infedeltà fiscale (salve le difficoltà oggettive nell’ intercettare le mancate fatturazioni).

Una parte dell’evasione però si realizza proprio grazie all’ampio ventaglio delle aliquote, che consente ai contribuenti una sorta di “arbitraggio” fiscale, per una «dichiarazione selettiva in base alle diverse aliquote all’acquisto (alte) e alla vendita (basse)», come ha ricordato anche Di Nicola. Secondo Visco, ciò è confermato dal fatto che l’evasione della base imponibile risulta inferiore all’evasone dell’imposta: con l’aliquota unica questa differenza verrebbe meno, con rilevanti benefici per l’erario in termini di recupero di evasione.

Naturalmente, se la strada dell’aliquota unica fosse considerata politicamente difficile, si potrebbe pensare – scrive ancora Visco – a un sistema a due aliquote, scelta in effetti adottata da molti Paesi europei, tenendo l’aliquota agevolata molto vicina all’attuale livello del 4% (da applicare alla quasi totalità dei beni alimentari, bollette di utenze, acquisto delle abitazioni) e unificando 10 e 22% a un livello tale da ottenere un gettito aggiuntivo che, insieme al recupero di evasione, potrebbe essere utilizzato per ridurre in modo significativo il cuneo fiscale e/o per mettere fine o alleggerire le clausole di salvaguardia.

Il prelievo va spostato dalle dirette alle indirette, dalle persone alle cose
Qui si apre un’ulteriore riflessione. Da tempo, tutte le istituzioni internazionali chiedono che i sistemi fiscali favoriscano lo spostamento del prelievo dalle imposte dirette a quelle indirette. Spostamento che negli ultimi anni, tra le due macrocategorie, sicuramente c’è stato. Ma, a livello di singole imposte, guardando all’Irpef e all’Iva, i numeri dicono che ci possono ancora essere margini su cui agire: l’Irpef rappresenta il 40,5% del gettito complessivo, mentre l’Iva si ferma al 28,8.

Il tema è molto discusso. Per semplificare, da un lato ci sono coloro i quali ritengono che un aumento dell’Iva finisca sempre per essere regressivo e per penalizzare i contribuenti meno abbienti; dall'altro, c’è chi ritiene che l’effetto regressivo potrebbe essere ridotto o azzerato se la rimodulazione-aumento delle aliquote fosse accompagnato da una riduzione dell’Irpef sui redditi medio-bassi, anche con sistemi di imposta negativa per tutelare gli incapienti.

Recentemente, un Working Paper curato da Nicola Curci e Marco Savegnago, analisti della Banca d'Italia (Shifting taxes from labour to consumption: the efficiency-equity trade-off) valuta i possibili effetti della destinazione alla riduzione dell’imposta personale del maggior gettito derivante dall’aumento delle aliquote Iva. Il risultato è che su tre simulazioni effettuate solo in un caso si limitano gli effetti regressivi dell’aumento dell’Iva, e ciò accade quando si aumentano (al 40%) le detrazioni Irpef per lavoro.

Un risultato che, per certi versi, diventa un richiamo alla cautela. Ma anche la conferma che lo scambio più Iva-meno Irpef può funzionare se si riesce a far crescere in modo significativo il reddito spendibile dei contribuenti (cosa che per altro farebbe bene pure all’economia), con un occhio di riguardo per le fasce più deboli.

M.Mobili/S. Padula - 04 febbraio 2020 – tratto da sole24ore.com

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