L’ultima manutenzione sulle risorse alle università è di qualche giorno fa. Con il via libera della Camera al decreto milleproroghe che stanzia 96,5 milioni sul Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) a partire dal 2021, da un alto, all’assunzione di 1.607 nuovi ricercatori e, dall’altro, a 1.034 progressioni di carriera all’interno degli atenei. Un’iniezione di liquidità che non risolve però lo stato di sottofinanziamento delle nostre accademie. E che le sta penalizzando sia nella corsa ai fondi europei, sia nei ranking internazionali.

Le risorse limitate per l’università

Che l’Italia spenda poco e soprattutto male per l’istruzione terziaria ormai è noto. Il rapporto dell’Ocse Education at a glance 2019 lo dice chiaramente: con il suo 0,57% del Pil impiegato sull’università, il nostro paese è penultimo nella Ue, davanti al Lussemburgo. E difficilmente il quadro muterà a breve se pensiamo che nel 2019 il Ffo - e cioè la principale fonte di finanziamento degli atenei - ha toccato quota 7,45 miliardi e quest’anno dovrebbe assestarsi sui 7,62. Per poi risalire a 7,67 miliardi nel 2021 e 7,71 nel 2022. Una dote a cui si aggiungerà il centinaio di milioni previsti dal milleproroghe. Pochi per invertire la rotta. Tanto più che si tratta di risorse sottratte all’Agenzia nazionale della ricerca, e dunque già destinate al mondo universitario.

La scarsa competitività degli atenei italiani

Un’elaborazione dell’università di Bergamo sulla distribuzione del Ffo 2019 ci aiuta a inquadrare meglio i termini del sottofinanziamento appena citato e a capire come questo si trasformi in sotto-dimensionamento. Un problema che, secondo il rettore Remo Morzenti Pellegrini non solo è «strutturale» ma «è anche trasversale. Gli atenei sotto-finanziati e sotto-dimensionati - aggiunge - sono tanto al Sud quanto al Nord, confermando che gli squilibri non riguardano una mera e sterile contrapposizione tra le due aree del Paese, ma sono diffusi ed eterogenei dal punto di vista territoriale». Tanto è vero che gli atenei con la quota di Ffo per singolo studente più bassa sono gli stessi che hanno il rapporto docenti/allievi più alto. E si trovano uno al settentrione (Bergamo), l’altro al meridione (l’Orientale di Napoli).

L’impatto sui bandi Ue
Se le conseguenze interne di un quadro del genere sono intuibili, ad esempio sui servizi agli studenti, quelle internazionali lo sono un po’ meno. E qui ci viene in supporto ancora una volta il presidente del Comitato regionale di coordinamento delle università lombarde quando sottolinea l’impatto negativo «sulla possibilità di concorrere, con successo, a bandi competitivi per finanziamenti nell’ambito della ricerca a livello europeo». E ancora di più quando fa notare che se «i ricercatori italiani sono un terzo dei ricercatori tedeschi è lampante che abbiano meno possibilità». Con tanto di metafora calcistica, legata forse ai successi sportivi della “sua” Atalanta: «Mentre gli altri giocano in 11 noi giochiamo con squadre di 7 giocatori, e i 7 sono quasi sempre old player e la competizione è la Champions League».In un sistema come il nostro che negli ultimi 10 anni ha perso 5mila tra docenti e ricercatori anche un piano straordinario di 1.607 ingressi rischia di non bastare.

Il ritardo nei ranking internazionali

Gli effetti del sottofinanziamento italiano cominciano a vedersi anche sulle discusse (soprattutto dai rettori) classifiche internazionali. Prendiamo il ranking 2020 del Times Higher Education (The). Ebbene le prime 50 posizioni sono occupate da realtà che hanno un rapporto studenti- staff pari a 13,8 che sale a 16,2 per le prime 100. Laddove le università tricolori presenti nella graduatoria del The hanno in media più di 26 allievi per staff. Non stupiamoci poi che - se escludiamo Sant’Anna e Normale di Pisa - la prima italiana (Bologna) arrivi solo al 168esimo posto e la seconda (Padova) addirittura oltre quota 200.

Eugenio Bruno - 28 febbraio 2020 – tratto da sole24ore.com

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