La canna fumaria è «pericolosa»: la Cassazione fa chiarezza sulla valenza di un regolamento che stabilisce le distanze tra costruzioni. Con la sentenza 20357/2017, depositata ieri, pur dando ragione alla proprietaria della canna fumaria, la Cassazione ha ribadito il principio delle tutele che prevalgono sulle regole urbanistiche, prima tra tutte quella della salute e della sicurezza.

La vicenda, che si svolge in un piccolo centro della riviera ligure di levante, vede schierati su fronti opposti le proprietarie di un immobile che confina con quello di un’altra proprietaria, che vi colloca una nuova caldaia con la canna fumaria. Le proprietarie del primo immobile rilevano subito la violazione delle regole civilistiche sulle distanze e l’immissione di fumi e odori molesti. E avviano una contenzioso giudiziario nel lontano 1999, forti del parere della Asl.

In primo grado il Tribunale de La Spezia ordinava nel 2003 di rimuovere la canna fumaria e ridurre il locale caldaia. E anche la Corte d’appello di Genova (nel 2013!) decide sulla stessa linea, precisando che il Tribunale bene aveva fatto a rilevare la norma generale del Puc comunale che prevedeva il rispetto delle distanze minime tra costruzioni dettata dal Codice civile (articolo 873), cioè di tre metri. Non solo: il fatto che il Comune non prevedesse nulla sulle canne fumarie è del tutto irrilevante dato che queste «ben possono essere considerate costruzioni».

A questo punto la proprietaria della canna fumaria ricorre in Cassazione e, dopo quattro anni, si arriva a una decisione definitiva.

Tra i motivi del ricorso c’è, anzitutto, quello della mancata considerazione, da parte della Corte d’appello, del fatto che, in assenza di una specifica norma regolamentare sulla distanza dal confine, sarebbe consentito al vicino di costruire sul muro in aderenza al confine. Poi si rileva che la Corte d’appello aveva applicato la normativa urbanistica vigente all’epoca dei fatti e non quella, più favorevole, vigente al momento del giudizio.

La Cassazione risponde con un’articolata motivazione.

Prima di tutto la Cassazione rileva che effettivamente la normativa urbanistica sopravvenuta, più favorevole alla proprietaria della canna fumaria e che avrebbe impedito la demolizione, è quella che deve essere applicata. E con una disamina che tiene conto dei criteri ermeneutici dettati dalle preleggi, la Cassazione arriva alla conclusione che, «qualora residuino incertezze in ordine al significato obiettivo a riconoscersi alla norma regolamentare, non trova applicazione la regola ermeneutica dettata per i contratti dall’articolo 1367 c.c.». Quindi, sotto questo profilo, viene data ragione alla proprietaria della canna fumaria.

La parte che invece interessa più da vicino è la risposta della Cassazione all’osservazione della proprietaria sul fatto che non era stato tenuto conto della Ctu che aveva attestato la «buona qualità dell’aria». La Cassazione, dichiarando inammissibile il motivo, ricorda però che esiste una «presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nei casi in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima» e le prescrizioni non siano rispettate. In assenza di regolamento la presunzione diventa relativa e spetta al proprietario dimostrare che «mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo al danno del fondo vicino».

In sostanza, quindi, la Corte d’appello di Genova dovrà rivedere la sua sentenza tenendo conto anche di questi princìpi.

Saverio Fossati - 25 agosto 2017 – tratto da sole24ore.com

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