La scorsa settimana, in poco più di 48 ore dall’apertura della piattaforma sul sito dell’Inps, sono state effettuate 90mila simulazioni e presentate quasi 2.500 domande di certificazione di Ape volontario. Appena l’istituto di previdenza ha dato il via all’attesa sperimentazione dell’anticipo finanziario a garanzia pensionistica, insomma, l’applicativo è stato subito preso d’assalto. E d’altra parte la platea interessata è pari a 300mila lavoratori quest’anno (e 115mila nel 2019).

Ma oltre a far partire l’Ape volontario, la circolare Inps 28/2018 del 13 febbraio ha chiarito finalmente il campo d’azione dell’Ape aziendale, in cui il datore di lavoro (o un fondo di solidarietà, un ente bilaterale) versa i contributi aggiuntivi a favore del futuro “apista”. Una soluzione che coniuga l’esigenza del lavoratore di ricevere un reddito ponte, accompagnamento alla pensione di vecchiaia, e quella delle imprese di rivedere l’assetto organizzativo interno, grazie a una sorta di uscita “condivisa”.

Di fatto, una valida alternativa non solo all’incentivo all’esodo, ma anche alla misura di prepensionamento introdotta dalla riforma Fornero (legge 92/2012), la cosiddetta isopensione. Modalità con la quale il datore si impegna a versare «una prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe in base alle regole vigenti, e a corrispondere all’Inps la contribuzione fino al raggiungimento dei requisiti minimi per il pensionamento».

La comparazione 
Il Sole 24 Ore ha messo a confronto l’impatto dei diversi strumenti di prepensionamento sui costi aziendali, a parità di assegno definitivo (si veda la tabella). Un confronto svolto al netto delle altre differenze tra gli strumenti, che dovranno comunque essere prese in esame al momento della scelta. L’isopensione – riservata alle aziende con oltre 15 dipendenti – può essere infatti attivata solo previa intesa sindacale. Richiede dunque una procedura più articolata rispetto all’Ape aziendale, che può essere invece il frutto di un accordo individuale tra azienda e singoli lavoratori, da allegare all’istanza di attivazione dell’Ape volontario.

Inoltre, se l’isopensione arriva a coinvolgere coloro che si trovano a meno di sette anni dal pensionamento (lasso così allungato dall’ultima legge di Bilancio per il periodo 2018-2020), l’Ape aziendale è appannaggio di chi esce fino a 43 mesi prima della vecchiaia.

Nel merito dei calcoli, per un prepensionamento di 12 mesi, riferiti a un lavoratore con 30mila euro di retribuzione lorda annua, l’azienda ha un costo sostanzialmente identico tra l’Ape aziendale e l’isopensione (mentre con l’incentivo all’esodo il costo aumenterebbe del 10%). Se invece, alle stesse condizioni economiche, si intende anticipare la pensione di tre anni, lo strumento della legge Fornero è paradossalmente più conveniente: l’Ape costa il 4% in più.

I fattori in gioco 
Naturalmente la convenienza di uno strumento rispetto all’altro non è assoluta, ma si può giudicare solo in funzione dei singoli casi. Ciò significa che in un processo di riorganizzazione aziendale è ragionevole pensare a un utilizzo del mix delle possibilità.

Il costo dell’isopensione è molto influenzato dalla carriera del lavoratore e dal tasso di conversione tra contributi e pensione: più questa è bassa, più l’azienda otterrà un risparmio con il prepensionamento.

Con l’Ape aziendale, invece, la scelta fa perno sulla misura dell’integrazione del montante contributivo previdenziale. Ipotizzando di integrare una contribuzione tale da garantire lo stesso netto che il lavoratore percepirebbe con il pensionamento, neutralizzando anche la rata per la restituzione del prestito, l’Ape aziendale potrebbe costare comunque di più dell’isopensione. E questo costo sale con l’aumentare del periodo di anticipo.

Non c’è dubbio che se l’azienda scegliesse solo di integrare i contributi figurativi che il lavoratore perderebbe per effetto dell’interruzione del rapporto di lavoro (e non anche per integrare la rata di restituzione del prestito), l’Ape aziendale potrebbe arrivare a costare anche il 70% in meno dell’isopensione. Ma in questo modo il lavoratore dovrà farsi carico dell’intera rata di restituzione dell’Ape per 20 anni, percependo di conseguenza una pensione netta inferiore. Probabilmente la negoziazione dei casi specifici potrebbe portare a una copertura di equilibrio, sebbene non totale.

Nelle proiezioni resta comunque fermo che il “vecchio” incentivo all’esodo esce sempre più penalizzato. Anche se il risultato non vale in assoluto: in alcuni casi, qualora i lavoratori abbiano un carico fiscale molto ridotto, l’esodo incentivato potrebbe risultare anche più conveniente dell’Ape aziendale.

Dario Aquaro/Enzo De Fusco - 21 febbraio 2018 – tratto da sole24ore.com

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