È illegittimo l’accertamento di maggiori ricavi fondato sulla quantità di miscela caffè mediamente necessaria per la produzione di una tazzina (il cosiddetto tazzinometro). Tale dato, derivante dalla comune esperienza, deve infatti trovare riscontro in elementi certi e non è da solo idoneo a fondare la pretesa.
Ad affermare tale principio è la Corte di Cassazione, con la sentenza nr. 10204 depositata ieri.
Un contribuente, esercente attività di bar, riceveva un avviso di accertamento con cui l'Agenzia delle Entrate procedeva al ricalcolo dei ricavi.
In particolare, l'Ufficio aveva calcolato i maggiori introiti derivanti dalla vendita di caffè, utilizzando il prezzo di vendita della tazzina, moltiplicato poi per il numero di somministrazioni annuali. Quest'ultimo dato veniva a sua volta calcolato prendendo come riferimento il quantitativo di caffè utilizzato nell'anno e quello necessario per la realizzazione di una tazzina (circa 7gr).
L'atto impositivo veniva impugnato innanzi la competente Ctp che accoglieva il ricorso del contribuente.

La sentenza

Tuttavia, la sentenza veniva riformata in secondo grado. La Ctr infatti riteneva corretta la ricostruzione dei ricavi sulla base del “tazzinometro” e confermava la legittimità della pretesa.
Il contribuente proponeva, dunque, ricorso in Cassazione, lamentando, tra le altre cose, che l'Agenzia delle Entrate aveva ricalcolato i ricavi derivanti dalla vendita di caffè sulla base della “comune esperienza”, partendo cioè da un asserito fatto noto (7 gr di caffè per fare una tazzina) per arrivare ad uno ignoto (quantità di caffè somministrato).
In realtà, le nozioni di comune esperienza avrebbero dovuto essere supportate da elementi di prova concreti. I fatti notori, inoltre, andrebbero circoscritti a situazioni limitate, senza farvi rientrare elementi valutativi, come per l'appunto la dose di caffè occorrente per preparare una tazzina.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, rinviando per nuovo esame ad altra sezione della Ctr.
I Supremi giudici ricordano, infatti, che il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, va inteso in senso rigoroso: il fatto noto da cui si parte deve avere un grado di certezza tale da apparire indubitabile ed incontestabile.
Pertanto non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari oppure la “scienza privata” del giudice.
Il fatto che 7 grammi fosse il quantitativo di caffè necessario per la produzione di una tazzina era in realtà un dato non corroborato da ulteriori elementi, ma meramente valutativo e, dunque, non sufficiente per fondare un accertamento.
Da qui l'accoglimento del ricorso del contribuente.

Sara Mecca - 19 maggio 2016 – tratto da sole24ore.com

 

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