La sanzione in caso di licenziamento illegittimo? Dipende. Il mix tra reintegra e risarcimento cambia in base al settore e alla data di assunzione. E con la riforma del pubblico impiego - entrata in vigore il 22 giugno scorso - si aggiungono regole speciali a un puzzle fatto di tanti tasselli diversi.

Prendiamo, per esempio, un caso di licenziamento disciplinare: un cassiere è accusato di commettere un furto ai danni del datore di lavoro appropriandosi del denaro contenuto nella cassa. Se viene accertato che il licenziamento è ingiustificato, le sanzioni vanno dalla reintegra sul posto di lavoro più un’indennità economica (massimo 12 mesi) al semplice risarcimento di importo variabile fra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ma attenzione: tutto ciò vale solo per gli assunti prima del 7 marzo 2015, ai quali si applica la legge Fornero (92/2012), che prevede – a seconda dei casi - una combinazione tra reintegrazione e risarcimento.

BABELE DI REGOLE 
Le sanzioni previste in caso di licenziamento illegittimo nel settore privato e pubblico. Nel settore privato i vecchi assunti sono quelli entrati in azienda fino al 6 marzo 2015, in nuovi dal 7 marzo 2015. Nel settore pubblico vale invece la data del licenziamento. Per mensilità si intende l'importo mensile dell'ultima retribuzione globale di fatto o, per nuovi assunti e pubblico impiego, la retribuzione utile ai fini del Tfr. (Fonte: elaborazione Il Sole 24 Ore su dati ministero del Lavoro e Istat)

Nuove regole dal 2015
Con il Jobs act si è creato uno spartiacque che coincide con l’entrata in vigore del decreto sulle tutele crescenti (il 7 marzo 2015, appunto). Per gli assunti a tempo indeterminato post Jobs act, la sanzione generale è il pagamento di un’indennità economica (2 mensilità per ogni anno di lavoro). La reintegrazione sul posto di lavoro (associata al risarcimento) si applica solo per i casi di licenziamento disciplinare basato su un fatto materiale inesistente.

Regole diverse per i datori di lavoro che non raggiungono i requisiti dimensionali per l’applicazione della cosiddetta “tutela reale”: riassunzione o risarcimento in caso di assunti prima del 7 marzo 2015; una mensilità per ogni anno di lavoro (da due a sei) per quelli assunti dopo.

Novità nel pubblico impiego 
Le regole sono ancora diverse nel settore pubblico, dove non si applicano le tutele crescenti: per i licenziamenti intimati prima del decreto Madia ”resiste” l’articolo 18, nella versione precedente la riforma Fornero; per quelli successivi cambia solo il fatto che il risarcimento è soggetto a un tetto di 24 mensilità.

Le possibili combinazioni (si veda l’infografica) sono almeno otto, con la precisazione che in caso di licenziamento discriminatorio in tutti i casi scatta la reintegrazione sul posto di lavoro, abbinata a un risarcimento del danno pari al pagamento di una somma pari a tutte le retribuzioni che il dipendente avrebbe maturato dal licenziamento illegittimo sino alla ripresa del lavoro.

Le cause di licenziamento, intanto, riprendono a crescere: secondo i dati del ministero della Giustizia (rielaborati dal Sole 24 Ore in edicola il 19 giugno), nel 2016 sono stati avviati in Tribunale 22.279 procedimenti nel settore privato, in aumento del 18,7% rispetto al 2014, con Roma, Milano e Napoli tra le città con il maggior numero di cause per abitante. La crescita nel biennio è da imputare soprattutto al rito Fornero: la procedura “speciale” ha riguardato 15.223 nuove cause nel 2016 rispetto alle 9.836 del 2014. Pochi ancora, invece, i fascicoli relativi ai licenziamenti di dipendenti assunti con il contratto a tutele crescenti. Dal Tribunale di Napoli, Carla Musella, presidente della sezione Lavoro, evidenzia una decina di casi sull’applicazione delle nuove regole in materia di licenziamento, mentre da Genova il presidente Enrico Ravera sottolinea che nel capoluogo ligure «un certo numero di cause sono già state iscritte, ma per lo più sono state definite in via conciliativa».

I licenziamenti nel 2016 sono stati 899mila, meno del 10% del totale delle cessazioni dei rapporti di lavoro. Su un totale di 9,1 milioni di cessazioni, 5,9 milioni hanno riguardato la fine di contratti a termine, 1,29 milioni sono state richieste dal lavoratore, 1,1 milioni sono state promosse dal datore di lavoro, mentre 792mila sono state determinate da altre cause (per esempio, risoluzione consensuale o modifica del termine inizialmente fissato).

Francesca Milano – 03 luglio 2017 – tratto da sole24ore.com

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