A guardare le aride cifre, si direbbe che non è cambiato nulla: nei primi 15 mesi di applicazione della legge sull’omicidio stradale (legge 41/2016), la maggior parte dei casi ha riguardato l’ipotesi più lieve, punita con le stesse sanzioni previste dal precedente regime (quello dell’omicidio colposo aggravato), cui si aggiunge solo un lungo periodo di sospensione cautelare della patente (fino a tre anni). La vera differenza dovrebbe esserci sul piano culturale: ormai quando i media danno notizia di un incidente mortale, affermano che il presunto responsabile è indagato per omicidio stradale, il che suggerisce il fatto che abbia compiuto un atto criminale, violento e non che abbia solo commesso un errore che può capitare a tutti.

Da questo bilancio, reso noto stamattina al convegno organizzato dalla Polizia stradaleper il suo 70esimo anniversario dalla fondazione, secondo i relatori emerge solo la necessità di pochi ritocchi alla legge. Altre modifiche sono state chieste per l’altro problema che attualmente preoccupa chi gestisce la sicurezza sulle strade: la mortalità che è tornata a salire dopo un quindicennio in discesa costante.

A chi ha fatto notare questa apparente contraddizione, il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha risposto che sarebbe stato impensabile ottenere miglioramenti dalla sola introduzione della legge sull’omicidio stradale. «Sarebbe stato miracolistico, quello che occorre davvero è un cambiamento culturale», ha detto, criticando indirettamente quei politici che hanno caricato la nuova legge di significati impropri durante il dibattito che ha portato alla sua approvazione.

Dal punto di vista del mero funzionamento delle nuove disposizioni, i dati della Polizia stradale (non sono noti quelli delle altre forze di polizia, che pure intervengono spesso in caso d’incidente) dicono che, su 843 incidenti mortali rilevati dagli agenti, si è aperto un fascicolo giudiziario per omicidio stradale solo in 388. Ciò è fisiologico: spesso in incidenti del genere muore anche il responsabile o presunto tale, quindi non si procede.

 

L’85% del 388 fascicoli aperti riguarda l’ipotesi più lieve, quella in cui non viene riscontrata alcuna aggravante e quindi la pena resta da due a sette anni, come nel precedente omicidio colposo aggravato. Appena 25 gli arresti in flagranza (la norma aveva ampliato questa possibilità per dare una qualche risposta a chi lamenta che spesso il colpevole torna tranquillamente a casa subito dopo l’incidente), cui vanno aggiunti cinque fermi di polizia giudiziaria e si contrappongono ben 410 denunce a piede libero.

Dati deludenti in rapporto alle aspettative ingenerate nell’opinione pubblica, ma che coincidono con le previsioni fatte da molti esperti (e riportate dal Sole 24 Ore) quando è stata approvata la legge. Per due motivi:

- spesso non ci sono quelle aggravanti (come la presenza di gravi infrazioni o la fuga del conducente) che fanno scattare le pene più pesanti introdotte dalla nuova norma, o perché l’infrazione non è stata commessa o perché è difficile da accertare;

- per confermare la custodia cautelare di un conducente arrestato in flagranza, occorre comunque che il giudice ravvisi pericolosità, pericoli di fuga o inquinamento delle prove.

Il direttore sel servizio Polizia stradale, Giuseppe Bisogno, ritiene opportuno fondamentalmente un solo correttivo alla legge: il ritorno del reato di lesioni personali gravi (quelle con prognosi superiore a 40 giorni) a essere perseguibile a querela di parte e non d’ufficio (cosa che ha provocato appesantimenti inutili per gli agenti e, non di rado, problemi sproporzionati per gli indagati rispetto alla loro effettiva colpa). Gianmarco Cesari, legale dell’Associazione familiari vittime della strada, si è detto d’accordo, con l’avvertenza che però questi tipi di reato non devono tornare della competenza dei giudici di pace, «che spesso sono interessati solo al fatto che l’imputato abbia riparato il danno e non a fare giustizia rispetto alla violenza stradale».

Cesari ha anche affermato che, dalla sua esperienza in processi per incidenti stradali gravi, emerge che le perizie appaiono più accurate che un tempo. Il Sole 24 Ore aveva evidenziato che il sistema giudiziario in generale era poco attrezzato per trattare con la dovuta attenzione reati ritenuti secondari come gli incidenti stradali e aveva citato proprio la modesta qualità di troppe perizie, che avrebbe avuto effetti gravi con l’inasprimento delle pene. Invece Cesari riporta che proprio l’aumento della posta in gioco ha provocato una spinta del sistema a migliorarsi.

Secondo il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, bisogna ancora lavorare sulla norma per precisare espressamente che il prelievo coattivo del sangue (per accertare se il guidatore aveva bevuto alcolici o assunto droghe). Ad oggi, sono molte le Procure che ritengono che ciò sia consentito e hanno emanato linee guida alle forze dell’ordine in questo senso (come nel protocollo adottato proprio dalla Procura generale di Roma come atto di coordinamento per il suo distretto, su impulso della Polizia stradale e con la collaborazione della Regione Lazio). Ma sarebbe meglio avere una maggiore copertura da parte della legge, che dovrebbe anche migliorare per rendere più facile dimostrare l’esistenza del nesso di causalità fra lo stato di alterazione dovuto ad alcol o droga e l’incidente. Salvi ritiene ancora possibile che in alcuni casi (come i sinistri causati da banditi mentre sono inseguiti dalle forze dell’ordine) si configuri il dolo eventuale: qui di sicuro il colpevole ha un interese (quello di sottrarsi alla cattura) tanto forte da far ritenere che accetti lucidamente di uccidere qualcuno pur di riuscire nel suo intento.

·        Maurizio Caprino - 6 luglio 2017 – tratto da sole24ore.com

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