Il patto di non concorrenza stipulato fra azienda e lavoratore rischia di essere nullo se ha un contenuto indeterminato.  Lo ha stabilito il tribunale di Modena (sezione lavoro), con sentenza del 23 maggio 2019. nella sentenza si precisa che, in base all’articolo 2125 Codice civile, il patto di non concorrenza pone limiti all’attività del lavoratore dopo la cessazione del suo rapporto di lavoro ed è finalizzato a contemperare due ordini di interessi contrapposti: quello del datore di lavoro di proteggere il suo “patrimonio” e, quindi, il know how, l’avviamento e la clientela acquisita e quello del lavoratore a non subire un’eccessiva restrizione delle possibilità di trovare una nuova occupazione.

Si tratta di un contratto a titolo oneroso a prestazioni corrispettive, per il quale vi sono limiti idonei a inficiarne, se non rispettati, la validità. In particolare, il patto deve considerarsi affetto da nullità «se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro» nonché se il vincolo posto in capo al dipendente «non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo».

La forma scritta dell’atto è richiesta ab substantiam, con conseguente nullità del patto in caso di ricorso ad altre forme.

Tra i principali contrasti interpretativi c’è il dibattito relativo alla legittimità di eventuali patti di opzione ovvero clausole di recesso, che riservino al datore di lavoro la facoltà di non avvalersi, in seguito alla stipula e entro un termine predeterminato, del patto di non concorrenza stesso, con conseguente venir meno del diritto del dipendente a percepire il corrispettivo.

In passato, la Cassazione si era espressa a favore della validità del patto di opzione e a favore del recesso unilaterale da parte del titolare.

Lo stesso giudice di legittimità, ha poi superato questa impostazione con la sentenza 9491/2003, arrivando alla tesi, tuttora prevalente, dell’invalidità di queste facoltà (così anche: Tribunale di Milano, del 25 luglio 2000, del 15 dicembre 2001 e Tribunale di Perugia 26 aprile 2005).

Non è, altresì, considerato legittimo un patto con un compenso di «carattere meramente simbolico, iniquo o sproporzionato» (Cassazione 4891/1998), ritenendosi la congruità di un corrispettivo che oscilli, generalmente, tra il 15% e il 35% della retribuzione (Tribunale di Milano, sentenza del 18 giugno 2001, sentenza del 5 giugno 2003, sentenza del 22 ottobre 2003).

Peraltro, come giudicato dalla recente pronuncia sopra citata, la nullità del patto può ravvisarsi anche in ragione delle modalità con cui viene pattuita la corresponsione del corrispettivo. Il giudice di merito, in conformità ad altra giurisprudenza di merito (Tribunale di Milano sentenze 13 agosto 2007, 28 settembre 2010) e all’orientamento già espresso dallo stesso tribunale (sentenza 347/2015), ha giudicato che la previsione del pagamento di un corrispettivo mensile in costanza di rapporto di lavoro violi il disposto dell’articolo 2125 Codice civile, perché rende ex ante indeterminabile il compenso, con conseguente alterazione della sinallagmaticità, considerato che, al momento della conclusione del patto, il corrispettivo è del tutto indeterminato, perché ancorato a una circostanza fattuale, quale la durata del rapporto, del tutto imprevedibile. Un ulteriore elemento da valutare per la validità del patto è il suo ambito territoriale di efficacia.

Monica Lambrou – 05 settembre 2019 – tratto da sole24ore.com

 

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