Nel regolare il conflitto tra il coniuge divorziato e quello superstite si può prescindere dal mero criterio della durata del matrimonio legale: contano infatti correttivi di tipo equitativo che possono «anche prevalere su quello della durata».

Sulla «durata», la sentenza del Tribunale di Roma n. 58/2015, (giudice Galterio) precisa la sua centralità e la valutabilità, in favore del coniuge superstite, del periodo di convivenza more uxorio prima delle seconde nozze, ribadendo che «occorre far riferimento non già al rapporto formale ma anche alla convivenza prematrimoniale al fine di riferire il criterio temporale all'effettiva comunione di vita del de cuius con le due mogli, stante la parificazione ormai consolidata che assimila la convivenza more uxorio al rapporto matrimoniale».

La richiamata parificazione, obbliga l'interprete a dover considerare con attenzione tutti quei correttivi equitativi, come implicitamente affermati dalla sentenza della Corte costituzionale 419/99 che, nel superare la centralità della mera durata del matrimonio legale, ha richiamato gli ulteriori criteri di valutazione previsti dall'articolo 5 della legge 898/70 «trattandosi di elementi funzionali allo scopo di evitare che il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio, ed il secondo (coniuge superstite) sia privato di quanto necessario, per la conservazione del tenore di vita che il de cuius gli aveva assicurato in vita».

Nella valutazione delle quote della pensione del marito da riconoscere alle due aventi diritto, devono concorrere, quali elementi correttivi all'elemento meramente temporale, una serie di altri parametri, quali «le complessive condizioni economiche degli aventi diritto, l'entità dell'assegno attribuito al coniuge divorziato, l'età raggiunta ed ogni altro elemento utile in relazione alla particolarità del caso concreto» come affermato dalla Corte di cassazione tra le altre con la sentenza 8734/09.

Così richiamati i principi ermeneutici, nella soluzione del caso concreto, il Tribunale di Roma ha affermato come nella valutazione delle durate dei rapporti si doveva rilevare, in luogo della formale durata della prima convivenza matrimoniale (27 anni) sino alla sentenza di divorzio, la effettiva convivenza con il coniuge che ha coperto un arco temporale inferiore di circa 14 anni, sino alla pronuncia della separazione, mentre la durata del secondo matrimonio, posta la stabile convivenza more uxorio, è di circa otto anni.

Tale dato è stato poi integrato con la considerazione che l'attribuzione in vita in proprietà, alla prima moglie divorziata, dell'intera proprietà della casa familiare - concessa dal marito - abbia costituito una liberalità posta in essere come evidente tacitazione definitiva dalle pretese derivanti dal vincolo familiare.

Di conseguenza, a soccorrere la minor durata della vita matrimoniale del coniuge superstite, il Tribunale ha ritenuto attribuibile «valore preponderante» al criterio correttivo della «assistenza personale prestata» da questa al de cuius, ammalatosi poi di un male incurabile, per prestare la quale la moglie superstite aveva poi trascurato completamente la propria attività di lavoro professionale, patendo quindi una contrazione importante dei propri redditi.

Al coniuge superstite è stata così attribuita la quota del 70% della pensione di reversibilità, mentre al coniuge divorziato il restante 30 per cento.

Giorgio Vaccaro - 21 maggio 2015 – tratto da sole24ore.com

 

 

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