Si torna in deflazione. A febbraio sia in Italia che in Eurozona i prezzi dei beni e servizi sono diminuiti rispetto a gennaio e rispetto a febbraio dello scorso anno. A dimostrazione che la politica monetaria avviata dalla Bce lo scorso marzo - il cosiddetto quantitative easing, che potrebbe essere addirittura ampliato il prossimo 10 marzo con nuovi stimoli verso le banche - non ha sortito l’effetto sperato.

Questo perché si continua ad affrontare l’attuale crisi senza prendere il problema di petto: è una crisi della domanda (e non dell’offerta) e fino a che in un certo qual modo il ceto medio-basso della popolazione (l’unico in grado di creare inflazione) non vedrà aumentare il proprio potere d’acquisto siamo in trappola.

Considerazioni macroeconomiche che farebbero bene a tener presente gli italiani che sono alle prese con un mutuo, sia coloro che ne stanno pagando già uno (per valutare un’eventuale surroga), sia coloro che sono in procinto di stipularne uno a breve giro. Come mai? Perché, molto semplicemente, il mutuo è un debito e come tale un “buon debitore” deve sempre volgere l’occhio all’inflazione e alle sue prospettive. L’inflazione dà una mano ai debitori e svantaggia i creditori, la deflazione fa esattamente l’opposto. Ne sa qualcosa l’Italia che, pur mettendo a segno anni di avanzi fiscali (da tempo quindi spende meno di quanto riceve dalle tasse) fa fatica a ridurre il debito pubblico.

La prima notizia, quindi, non è positiva per i mutuatari: la deflazione fa aumentare il costo reale di qualsiasi debito, mutuo incluso. Tuttavia c’è un altro lato della medaglia. Non potendo cambiare lo scenario macroeconomico i mutuatari possono, anzi devono, adeguarvisi nel migliore dei modi. In che modo? Osservando i tassi di interesse interbancari, a cui sono collegati sia il tasso fisso che il variabile. Il tasso fisso segue l’andamento degli indici Eurirs, il tasso variabile è agganciato all’andamento degli indici Euribor o - solo per una percentuale minimale di mutui - il tasso Bce.

Osservando l’andamento degli indici Eurirs si può notare uno spettacolare ribasso nei primi due mesi dell’anno. L’indice a 20 anni - utilizzato quindi per i mutui a tasso fisso di durata ventennale - è sceso sotto l’1% quando a inizio anno era vicino all’1,6%. Stessa dinamica per l’indice a 25 e 30 anni. In due mesi questi indici hanno perso tra i 60 e i 70 punti base. Il che significa che chi stipula oggi un mutuo a tasso fisso - a parità di spread (l’altra componente, decisa dalla banca, che concorre a formare il tasso di interesse finale) rispetto a due mesi fa - paga un tasso scontato dello 0,6-0,7%. Una situazione simile a quanto visto la scorsa primavera quando pure gli indici Eurirs erano scesi sui minimi. Questo accade tecnicamente perché gli Eurirs sono correlati all’andamento del tasso del Bund tedesco che non a caso in questo momento è allo 0,10%, vicino al minimo storico toccato lo scorso aprile a quota 0,07%. Ma al mutuatario non interessa sapere perché. Basta sapere che quando il tasso del Bund è basso, tende a scendere anche l’Eurirs. Questo vuol dire che il fisso oggi - sia per i nuovi mutui che per eventuali surroghe - costa meno.

E il variabile? Le cose non accadono mai per caso in macroeconomia. Quando il tasso del Bund scende, e con esso quindi gli indici Eurirs, vuol dire che siamo di fronte a uno scenario incerto (gli investitori acquistano il bene rifugio Bund facendone quindi scendere il rendimento) e potenzialmente deflativo (non c’è ripresa economica, quindi i consumi scarseggiano, quindi i prezzi dei beni tendono a scendere anziché a salire).

Questo significa che anche l’Euribor - l’indice che nei mutui a tasso variabile si somma algebricamente allo spread per arrivare al tasso finale - tende a scendere. E in effetti è quello che sta accadendo. Questi indici non sono mai caduti così in basso. Tanto che sono addirittura negativi. L’Euribor a 1 mese vale oggi -0,26% e quello a 3 mesi -0,2%. Ciò significa che se la banca si comporta a rigor di logica, questo indice oggi viene sottratto allo spread nel calcolare il tasso finale, con un forte risparmio per i mutuatari variabili. Se ad esempio ho un mutuo con spread dell’1,5% agganciato all’Euribor a 1 mese, la rata in questo mese mi verrà calcolata a un tasso dell’1,24%, quindi sottraendo lo spread. Anche se non tutte le banche lo fanno.

Il dilemma del tasso variabile è che la rata viene calcolata di mese in mese in base alle fluttuazioni dell’Euribor mentre il tasso fisso resta per sempre quello congelato al momento della stipula (eventuali variazioni degli Eurirs non interessano più al mutuatario salvo che nella valutazioni di operazioni future di surroga). Quindi c’è da chiedersi che strada prenderanno in futuro gli Euribor.

Su questo punto bisogna tenere in considerazione l’andamento del tasso sui depositi, quello che in teoria le banche dovrebbero ricevere dalla Banca centrale europea in cambio del deposito, a fine giornata, delle riserve di liquidità in eccesso. Il condizionale è d’obbligo perché in questo momento accade il contrario. Dato che il tasso sui depositi è negativo (-0,3%) sono le banche a pagare una tassa alla Bce per parcheggiarvi le riserve. E questa tassa potrebbe diventare ancor più cara dal prossimo 10 marzo, quando ci si aspetta che la Bce decida di portare il tasso sui depositi a -0,4% o -0,5% con l’obiettivo di spingere le banche a ridurre le riserve da parcheggiare a fine giornata e quindi di spingerle a prestare più soldi all’economia reale, a quel ceto medio-basso che fa fatica a creare quel minimo di inflazione (2%) che la Bce vorrebbe. Siamo così lontani dal 2% anche nel medio periodo tanto che ieri il tasso 5y5y inflation eurozone - che misura le aspettative a 5 anni dell’inflazione nell’area euro - è sceso all’1,36%, il minimo da quando esiste l’Eurozona.

Vito Lops - 01 marzo 2016 – tratto da sole24ore.com

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