Fermate Basilea»: con una mossa a sorpresa, la federazione che rappresenta 17mila banche internazionali (tra cui le italiane) si è scagliata contro le regole che il Comitato di Basilea (con l’aiuto del Governo Usa) vorrebbe imporre a fine anno. La «rivolta» emerge da una lettera riservata al Financial Stability Board e al G20.

La lettera, di cui Il Sole24Ore ha ottenuto una copia, conferma non solo la tensione crescente nell’industria bancaria nei confronti di una stretta regolatoria divenuta ormai non solo «soffocante» per l’attività creditizia - già penalizzata dalla crisi economica e dall’effetto negativo dei tassi a zero sui margini di profitto - ma anche squilibrata a favore di una giungla opaca di nuovi operatori finanziari «ombra» (il cosiddetto «shadow banking») che si muovono dagli Stati Uniti sul mercato mondiale del credito senza essere sottoposti alle norme restrittive su crediti, rischi e leva e agli obblighi di vigilanza imposti invece alle banche commerciali tradizionali.

Sotto accusa, dunque, ci sono non solo gli eccessi regolatori concepiti da un esercito di tecnocrati il cui lavoro sembra ormai essere andato ben oltre il mandato ricevuto dal G20 dopo la crisi dei subprime, ma in generale l’intera architettura normativa finora concepita dal Comitato di Basilea. «La Federazione bancaria internazionale - è scritto nella lettera spedita il 30 novembre scorso al Segretario generale del Financial Stability Board, Svein Andresen - ha collaborato attivamente ai lavori del Comitato di Basilea nella definizione di nuovi standard internazionali che hanno reso più livellato «il campo di gioco». Ma ora è opportuno fermare il processo e valutare attentamente non solo i risultati ottenuti in termini di sicurezza del sistema, ma anche gli effetti e i danni collaterali delle norme già introdotte. E soprattutto, di quelle che si vorrebbero approvare entro fine anno».

Le regole, in altre parole, dovrebbero avere come punto di riferimento non solo la riduzione dei rischi sistemici sul mercato, ma soprattutto il sostegno delle economie nazionali, il rilancio della crescita, le necessità di investimento delle imprese e i bisogni delle famiglie. «Il G20 - ha scritto chiaramente il managing director della IbFed, Hedwige Nuyens - deve fermare l’avanzamento del programma di Basilea e aprire un nuovo confronto con l’industria bancaria sulle modifiche necessarie per evitare il rischio di una paralisi del credito, altre ricapitalizzazioni forzate e gravi ripercussioni sui diversi sistemi economici nazionali, soprattutto i più deboli». Il riferimento agli squilibri tra sistemi e modelli bancari non è casuale. Porta dritti alla vera essenza di uno scontro che è non solo finanziario, ma anche politico e competitivo.

Il bersaglio delle 17mila banche è infatti non solo lo zelante presidente del Comitato, l’olandese Stefan Ingves (è considerato come un “falco” persino dai tedeschi, il che è tutto dire), ma soprattutto il ruolo assunto dall’amministrazione americana di Barack Obama in questa delicata partita globale. Dietro le quinte del negoziato tra banche, autorità di vigilanza e governi nel Comitato di Basilea, non ci sono infatti solo diversità nazionali e «culturali» da armonizzare, ma soprattutto il tentativo di Washington di rilanciare il ruolo e il peso delle banche americane sul mercato europeo abusando del proprio “peso” all’intero del Comitato: in particolare, la Casa Bianca sta cercando di imporre all’intero sistema bancario mondiale il modello di business più funzionale alle strategie e alle caratteristiche dei colossi Usa, che non a caso hanno fatto poco o niente per sostenere la “rivolta” dei concorrenti europei.

Anche senza cadere nel patriottismo finanziario, è effettivamente difficile capire come si possa mai pensare che una banca che opera su mercati “tradizionali”, caratterizzati da piccole e medie imprese, artigiani e famiglie, possa essere in grado di assorbire e recepire senza danni regole, norme e modelli concepiti per intermediari finanziari globali operanti su mercati dei capitali ben sviluppati ed efficienti. L’Europa, salvo Londra, non è così: per le nostre banche commerciali tradizionali, per le banche territoriali e in generale per i sistemi che hanno avuto storicamente un forte radicamento nell’economia reale, come per esempio quello italiano.

Solo per avere un’idea dello scenario, basti pensare che se le norme di Basilea 4 fossero approvate come sono, le banche europee potrebbe essere costrette a ricapitalizzazioni per 850 miliardi euro, una cifra da brivido pensando al piano Montepaschi o ad altre ricapitalizzazioni in arrivo,come quella di Unicredit: sui big dell’investment banking americano, invece, l’effetto sarebbe praticamente irrilevante. L’abito «a taglia unica», insomma, sarebbe un grande favore ai colossi di Wall Street, che potrebbero approfittare della situazione per conquistare più quote di mercato in Europa.

In questo contesto, si sta creando persino una situazione paradossale, che spiega tra l’altro la ragione per cui gli americani vogliono l’approvazione delle regole entro fine anno, mentre gli europei (tedeschi, danesi, svedesi e italiani in particolare) puntano sul rinvio al prossimo anno. Chiudere entro fine dicembre - come vorrebbe il Comitato - permetterebbe infatti all’amministrazione Obama di mettere a segno un clamoroso successo politico poco prima che Donald Trump si insedi alla Casa Bianca, impedendo così al neo-presidente americano di onorare l’impegno preso in campagna elettorale di bloccare il varo di nuove norme sul credito dannose e pericolose per le famiglie e le imprese. Puntando fortemente sul rinvio e sul riesame delle norme messe a punto a Basilea, insomma, l’Europa e le sue banche contano non solo di neutralizzare i piani di Obama, ma anche di uscire grazie a Trump dalla stretta della morsa regolatoria e competitiva. Dopo aver accusato i banchieri di avidità e l’Europa di protezionismo, Donald Trump potrebbe diventare l’alfiere della rivolta contro il soffocamento da regole.

Alessandro Plateroti - 03 dicembre 2016 – tratto da sole24ore.com

Altre notizie